Teatro

BUCAREST, FESTIVAL GEORGE ENESCU

BUCAREST, FESTIVAL GEORGE ENESCU

Non è difficile farsi un’idea che cosa sia diventato il Festival George Enescu di Bucarest, evento biennale che occupa per l’intero mese di settembre le sale da concerto (la Sala Mare a Palatului,  l’Ateneul Român, l’Universitatea Naţională de Muzică e la Sala Radio) ed il Teatro dell’Opera di Bucarest, con decine e decine di appuntamenti tutti concentrati al centro della capitale romena. Basta prendere ad esempio il week-end che mi ha visto ospite del Festival – e del quale riferisco subito dopo ai nostri lettori - ma anche quei giorni che l’hanno preceduto e seguito. Vediamo solo le cose principali: martedì 10 settembre l’Orchestre de Chambre de Paris diretta da Thomas Zehetmair e l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI di Torino diretta da Juraj Valcuha erano impegnate in concerti dedicati prevalentemente a Fauré, Ravel, Debussy. Mercoledì 11 e giovedì 12 erano presenti Antonio Pappano e l’Orchestra di S. Cecilia, con una serata sinfonica prima e con il “Requiem” verdiano poi, mentre al pomeriggio Rudolf  Buchbinder  ha presentato in due tranche i cinque concerti per piano di Beethoven, con il supporto della Filarmonica G. Enescu. Peccato non esserci, ahimè. Venerdì 13 e sabato 14, per gli appassionati era possibile un vero e proprio ‘tour de force’ con tre concerti collocati in fila uno di seguito all’altro, da metà pomeriggio alla mezzanotte inoltrata. Inizio all’Ateneo Romeno con l’Orchestre National d’Île-de-France diretta da Enrique Mazzola (il 13) e da Cristian Lupeş (il 14); nella Sala Grande del Palazzo la London Philharmonic Orchestra, diretta da Vladimir Jurowsky, offriva due concerti sinfonici: la prima sera con Anika Vavic, la seconda con Leonid Kavakos al violino. Infine corsa dall’altra parte della strada per i «Concerti di mezzanotte» : per due serate di seguito, Christian Zacharias e la Lausanne Chamber Orchestra hanno dilettato il pubblico dell’Ateneo Romeno con una selezione di lavori mozartiani. Domenica 15 e lunedì 16 – lasciando da parte la molta carne al fuoco - l’attenzione si focalizzava sull’esecuzione in forma di concerto del  “Rheingold” e della “Walküre”, prime due tappe del ciclo wagneriano destinato a concludersi giovedì 19 e lunedì 22 settembre con “Siegfried” e “Götterdämmerung”. Protagonisti dell’impresa Marek Janowski e la Rundfunk – Sinfonieorchester Berlin, che hanno così proposto un giusto contraltare musicale alle rappresentazioni di “Otello” al Teatro dell’Opera – omaggio al bicentenario verdiano nella settimana d’avvio del Festival– con la concertazione di Keri-Lynn Wilson e la regia di Vera Nemirova. Tutti gli appuntamenti in cartellone insomma, per qualità e quantità sono tali da far girare la testa anche al musicofilo più incallito; e fanno del Festival romeno – che ha assunto una cadenza biennale - uno degli appuntamenti mondiali di maggiore attrattiva.

Fatta questa dovuta premessa, veniamo a riferire di quanto abbiamo visto e sentito di persona nei nostri tre giorni di presenza a Bucarest. L’Orchestre National d’Île-de-France ha messo in luce la sua naturale inclinazione verso un repertorio novecentesco, oltre che una salda organizzazione strumentale ed una invidiabile  souplesse:  dapprima con Enrique Mazzola, latore di invidiabili riletture di Ravel (il Concerto per piano in re maggiore, quello per sola mano sinistra, e la seconda Suite da “Daphnis et Chloé “), Ibert (“Bacchanale”), Honegger (il “Concertino per piano e orchestra” H 55, ottima solista Claire-Marie Le Guay), Milhaud (“Le Bœuf sur le toit“); e poi il pomeriggio seguente con il giovane direttore romeno Cristian Lupeş, impegnato in Webern (la “Fuga” a sei voci da Bach), Bartók (il “Concerto no. 2” con il violino di Alissa Margulis) e la “Seconda Sinfonia” di Enescu, interessante lavoro del 1913.
A poco più di quarant’anni d’età, e dopo una decade di feconda collaborazione artistica, Vladimir Jurowsky ha raggiunto senza alcun dubbio un’intesa perfetta con quella formidabile macchina da guerra che è la London Philharmonic Orchestra. Lo hanno confermato i due eccezionali concerti serali che hanno visto il maestro russo e la LPO impegnati in performances di assoluta eccellenza, giustamente accolte da dimostrazioni di caldissimo apprezzamento del pubblico della Sala Grande del Palazzo. Prima sera, locandina con “La Grande Pasqua russa” di Rimskij-Korsakov, il “Terzo Concerto per piano” di Prokofiev (solista la brava e comunicativa artista serba Anika Vavić), e per finire l’intimistica “Sinfonia n. 1” di Brucker, eseguita nella versione di Vienna. Seconda serata, il “Concerto in re maggiore” op. 77 di Brahms nella visione  travolgente – sia emotivamente che tecnicamente – offerta da Leonida Kavakos, senza dubbio uno dei maggiori interpreti d’oggidì di questo caposaldo del repertorio per violino (e non solo di questo, va da sé). Assai meno coinvolgente la post-romantica e un po’ farraginosa “Terza Sinfonia” di Enescu, partitura assolutamente dimenticabile che comunque ha messo in piena luce la perfezione esecutiva dei londinesi, e fatto brillare la bella sensibilità, nel suo movimento conclusivo, del Coro Accademico della Radio di Stato Romena.
Leggerezza e trasparenza strumentale sono le lampanti prerogative dell’Orchestra da Camera di Losanna, che mi pare abbia trovato in Christian Zacharias una guida artistica ideale: anche in questo caso, un esempio di completo affiatamento tra strumentisti e direttore. Tanto, tantissimo Mozart - un Mozart denso, caldo, umorale, per nulla apollineo - suddiviso in due sere nella sala dell’Ateneo Romeno, ed eseguito assolutamente a perfezione: prima sera la “Sinfonia concertante” K 364 (protagonisti il violino di François Sochard e la viola di Eli Karanfilova), il “Concerto per pianoforte” n. 15 K 450 (solista lo stesso Zacharias), la “Sinfonia  n. 40” K 550. E poi nella seconda la “Serenata in re maggiore” K 320 “Posthorn”, il “Concerto per piano”  K 488, nonché due momenti squisitamente solistici: cioè la “Fantasia per piano” K 397 e il “Rondo per piano” K 485. Presi insieme alla lettura fenomenale del Concerto in la maggiore, hanno dato ennesima conferma dell’eleganza ed eccellenza del pianista e direttore tedesco, dotato sulla tastiera di un tocco leggero e vigoroso allo stesso tempo, e di una rara sensibilità musicale.

E veniamo all’esecuzione del “Rheingold”, prima tappa del “Ring” affidato per intero alla matura e saldissima bacchetta di Marek Janowski. Il quale, peraltro, con la Rundfunk- Sinfonieorchester ha da poco realizzato per l’etichetta Pentatone - dopo aver messo mano con esiti più che positivi al “Tristano” e al “Parsifal” - un’incandescente registrazione proprio del “Rheingold”,  alla quale faranno seguito credo a breve i rimanenti tre episodi. E’ un’incisione valida e decisamente intrigante, che ci sentiamo di consigliare caldamente a chi legge; e bisogna dire che la stessa torrida temperatura che la pervade l’abbiamo ritrovata in questa sessione concertistica bucarestina, eseguita senza coro e senza alcuna pausa. Il che vuole dire quasi tre ore di musica senza tirare fiato, e senza dar segno di un minimo calo di tensione. Un più che notevole impegno, non solo per un pubblico costretto seduto ed immobile per tanto tempo, ma ovviamemente soprattutto per direttore, orchestra e cantanti impegnati in una lunga, sfibrante performance. L’esecuzione è parsa appassionante sin dal fluente Vorspiel iniziale che ha fatto emergere subito e chiaramente la finezza strumentale della compagine orchestrale della Radio tedesca, di non molto inferiore ai tanto declamati cugini dei Berliner. La lettura di Janowski è trasparente e brillante, con raffinate miscele di suoni; evita con cura un effetto di eccessiva compattezza, così che ogni singolo strumento – sia un cello, un corno inglese o un clairinetto - trova modo di emergere dal flusso sonoro; ed ottiene un fluire orchestrale compatto ma pure sorprendentemente sciolto, e sa ricreare un suono assolutamente ammaliante. Una visione, in poche parole, cosmica e solenne, tramite la quale viene evocato un clima drammatico passionale e coinvolgente che cattura anima e corpo degli ascoltatori: i quali finiscono così per dimenticare che il mondo degli dei e semidei wagneriani, messa da parte ogni esaltazione retorica, assomiglia molto a quello terreno, quando quelli scadono alle passioni proprie degli umani – bieca avidità, stolide ambizioni, inganni e subdole astuzie – assumendo atteggiamenti persino piccolo-borghesi, come ben hanno messo in risalto le geniali regie di Robert Carsen all’Opera di Colonia. Perfetta poi l’intesa raggiunta dal maestro polacco con gli interpreti vocali, che hanno brillato particolarmente nella componente maschile. Possente e luciferino l’Alberich di Ştefan Ignat, voce scura e piena di corpo, grande protagonista della serata; ma non da meno sono stati gli altri, a cominciare dal solidissimo Wotan di Egils Silins, pervaso di brusca protervia, e dal Loge del tenore Christian Elsner, cinico e spudorato, reso assai efficacemente evitando quella emissione talora troppo aperta che affligge altri suoi colleghi. E poi a seguire con Valentin Vasiliu (Donner), Marius Vlad Budoiu (Froh), Günther Groissböck e Sorin Coliban (due statuari e rudi Fasolt e Fafner), Arnold Bezuyen (ottimo, arguto Mime), tutti perfettamente calati nei rispettivi ruoli. Indovinata  la scelta del mezzosoprano Elisabeth Kulman per la parte di Fricka, resa con quella affannata apprensione che le è propria; un po’ meno quella della manierata Alexandra Reinprecht per il personaggio di Freia. Le tre figlie del Reno, (Woglinde, Wellgunde e Flosshilde) erano Julia Borchert, Alina Bottez e Sorana Negra; Erda era affidata al bravo contralto Daniela Denschlag. 
Serata indimenticabile, testimoniata anche dagli applausi irrefrenabili del pubblico, abbandonatosi ad una entusiastica standing ovation. Il che suscitava un ovvio rimpianto:  non potersi fermare almeno un giorno di più, per affrontare insieme a Janowski il capitolo seguente della Tetralogia, “La Valchiria”.